29 Ottobre 1901
Il 6 Settembre 1901 all’esposizione Pan Americana di Buffalo, Leone
Czolgoz, un operaio poco più che ventenne attentava alla vita
del ventiquattresimo Presidente della Repubblica, William Mc Kinley
[sic], che in seguito alle ferite riportate spirava in Buffalo una
settimana di poi.
Leone Czolgoz, che era un cittadino
americano, aveva militato nel partito socialista alle cui organizzazioni
era rimasto inscritto fino a poche settimane avanti l’attentato.
La sua natura esuberante, l’impetuoso bisogno d’agire onde vibrava
ogni sua energia, lo spirito di rivolta che irritavano la miseria
squallida e le angustie dolorose in cui gemevano i suoi vecchi,
i suoi fratelli, la sterminata famiglia dei suoi compagni di lavoro,
non avevano trovato nelle accademie mansuete di parolai e di arrivisti,
nelle palestre di ambizioni miserabili e di loschi opportunismi,
nei focolari d’intrighi, di calcoli, di mercimoni che sono—in America
peggio che altrove—le organizzazioni del partito socialista, il
campo irrequieto che egli aveva sognato alle aspre e luminose battaglie
della redenzione.
E ne era esulato deluso, stanco, amareggiato.
Aveva accostato in Chicago qualche
anarchico e gli aveva confidato le sue delusioni, l’amarezza infinita
ond’era pervaso, l’urgente bisogno d’agire, di dare un esempio,
d’additare una via ond’era agitato, e. . . . non aveva raccolto
che più amare delusioni: il suo impeto, la sua febbre d’azione,
il suo fervore entusiasta non gli avevano intorno suscitato che
diffidenza, sospetto, isolamcnto [sic].
Riprese il suo triste pellegrinaggio
di paria in cerca di lavoro, in cerca di pane, ed era capitato a
Buffalo ove l’Esposizione Pan Americana, allora nel suo meriggio
fulgente, sorrideva ai senza lavoro come una terra promessa.
Era capitato a Buffalo proprio nei
giorni in cui il Presidente della Repubblica era venuto a solennizzare
i trionfi miracolosi dell’industria nazionale, a celebrare la prosperità
fantastica della nazione benedetta da dio di un’incrollabile fortuna.
Quell’uomo dalla figura adunca di
pubblicano antico, dallo sguardo verde e grifagno, dalla parola
fredda, insolente, minacciosa come una lama, Leone Czolgoz lo conosceva.
Le valli fiorite della Pensilvania,
le gole profonde dell’Idaho avevano un giorno, non remoto nella
memoria, echeggiato di un’unanime preghiera piena di pianti, di
spasimi, di singhiozzi. Erano poveri minatori che alla sotterranea
fatica invocavano per sè, pei figli, per le deserte compagne un
po’ più di riposo, un po’ più di pane, un po’ più di pietà. Il silenzio
sdegnoso con cui alle loro preci si era risposto avevano essi rotto
coll’imprecazione dapprima, colla torva dispe rata [sic]
minaccia di poi, e la paura stava per curvare alla resa gli epuloni
quando le preci, le imprecazioni, le minaccie soffocò in un rantolo
disperato il crepitìo secco della mitraglia.
In soccorso degli affamatori era venuto
McKinley l’uomo che ora parlava di gloria, di pace, di prosperità.
La conosceva egli, il paria adolescente,
la prosperità del paese. . . .
L’aver vista erigersi opima sotto
le sue mani industri, l’aver vista erompere fiorente dal lavoro
impervio dei suoi compagni di fatica, ne riconosceva maglia a maglia
tutto il tragico ordito. S’era, filo a filo, tramata della miseria
di tutti che le ultime imprese militari avevano inasprita, e tra
i fili della trama luccivano come rubini stille di sangue, luccicavano
come perle stille di pianto, sangue e lacrime dei paria anchilosati
per le miniere, anemizzati per gli ergastoli, inariditi al rovaio
su pei solchi, su per galere della grande repubblica benedetta da
dio.
La prosperità che il sacerdote grifagno
della patria matrigna celebrava tra i vermigli trofei delle costellate
bandiere della repubblica era il frutto di secolari rapine, di frodi
sapienti, di rinnunzie disumane, di prostituzioni senza nome. Egli
il sacerdote grifagno della patria matrigna quelle frodi aveva organizzate,
alimentate, protette, diffuse, suggellando tra gli smarriti occhi
dei vinti il marchio di una nuova e più orrenda schiavitù, curvando
le loro cervici sotto il triplice giogo scellerato della miseria,
dell’abbrutimento, della vergogna. Il suo inno alla frode vittoriosa
ed impunitaria era tutto un peana d’irrisione agli umili, ai caduti,
ai diseredati; e, briachi d’incoscienza e di stupido orgoglio, agitando
le loro catene e la loro vergogna, questi applaudivano.
Ruppe l’incanto. . . . . .
Coloro che sulle sventure e sulle
stragi della povera gente coniano la fortuna, che le lacrime e la
pietà rintascano in omaggio ai dividendi, sull’idolo infranto versarono
torrenti di lacrime e di rimpianti inconsolabilmente sinceri: non
avevano trovato mai strumento più poderoso e più docile ai loro
capricci, ai loro calcoli ed alle loro avventure, e mai la stagione
era corsa più propizia alle audacie del capitalismo americano come
sotto il consolato di William McKinley. Così sul capo del reprobo
adolescente che della sua giustizia vendicatrice l’aveva atterrato
d’un soffio si riversò l’onda selvaggia ed inesorabile delle più
roventi maledizioni.
Non piegò sotto la raffica il bellissimo
efebo: impavido e sereno come il biblico Davide in conspetto dell’immenso
Golia, Leone Czolgoz “senza battere ciglio nè piegar sua costa”,
sostenne l’uragano delle ire di classe al parossismo. Lo attanagliarono
nelle carni e nel cervello, lo torturarono con raffinatezza feroce
nei sentimenti e negli affettì più cari, ne martoriarono i vecchi
cadenti, ne perseguitarono con giudaica inesorabilità i fratelli:
non pianse, non si mortificò, non si pentì. Ripudiò l’assistenza
ed il braccio di padre Fudzinsky che doveva confortarne le ultime
ore e. . . . profittare delle sperate debolezze del momento estremo,
ed al fratello venuto a dargli l’ultimo abbraccio il 28 Ottobre
1901, ripeteva: “muoio tranquillo, la morte non mi fa paura, essa
viene tosto o tardi per tutti: ma tu devi dire al popolo americano
che io non ho sollecitato mai l’assistenza religiosa, che l’ho costantemente,
pertinacemente rifiutata; la nostra famiglia è cattolica, ma dal
1893 io sono ateo, e non ho oggi alcuna ragione per mutare le mie
convinzioni”.
Il 29 Ottobre 1901 alle 7,12 antimeridiane
condotto nella sala delle delle [sic] esecuzioni marciò solo,
diritto, impavido al supplizio squillando in volto ai giudici, ai
preti, al boia, alla ventina di borghesi convenuti a gioire del
suo strazio, le memorande parole : “Ho giustiziato il presidente
McKinley perchè egli era il più implacabile nemico dei lavoratori,
non sono menomamente pentito del mio atto. Ho in questo momento
un unico rimpianto, quello di non aver potuto abbracciare un’ultima
volta mio padre”.
Thayer, il boia, l’assicurò sulla
sedia e tre scariche di mille e settecento volts succedutesi a qualche
secondo l’una dall’atra l’irrigidirono alle 7,15 precise.
E noi, pur nemici decisi di ogni religione,
di ogni idolatria, ricordando ai combattenti della buona battaglia
l’umile pioniere poco più che ventenne non possiamo di fronte alla
sua eroica fermezza trattenere il sentimento, molto umano del resto,
della nostra profonda ammirazione.
In quell’ adolescente quadrilustre
era più carattere, più energia, più coscienza che non siano di consueto
in molti uomini e magari in molti superuomini orgogliosi e vani.
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